La guerra torna drammaticamente (e prepotentemente) di attualità. Come prevedibile, il sabotaggio del ponte di Kerch, che collega la Crimea alla Russia, che, oltre alla sua utilità infrastrutturale, ha un forte significato simbolico (è stato voluto da Putin, che ha speso $ 3,5 MD per costruirlo, inaugurandolo nel 2018, dopo l’annessione “imposta” all’Ucraina della penisola che affaccia sul mar Nero) sta provocando la dura reazione dell’esercito russo (oltre al cambio di alcuni suoi vertici, a conferma di un pericoloso “cambio di passo” da parte dell’oligarca di Mosca, la cui popolarità – anche se in Russia non esistono, almeno ufficialmente, sondaggi che misurano il gradimento dei leader – probabilmente è, dopo il “richiamo alle armi” di migliaia di uomini, ai minimi termini).
Peraltro, al momento, i mercati non sembrano particolarmente preoccupati dall’escalation bellica di questi giorni; la stessa affermazione di Biden, che non più tardi di venerdì scorso aveva evocato “l’armageddon nucleare” (il Presidente americano non è nuovo ad affermazioni che, anziché placare gli animi, li scaldano), anche se poi in parte smentita, non ha provocato reazioni scomposte, con l’indice Vix (soprannominato “della paura”, appunto in quanto trasmette praticamente in tempo reale la possibile reazione dei mercati) che ha continuato a muoversi influenzato più dalle vicende puramente macro-economiche che non dalle tensioni politiche internazionali.
A dominare la scena sono “i soliti noti”: energia, inflazione, politiche monetarie delle Banche Centrali. Tutti elementi che impattano in modo determinante sugli scenari futuri, con lo spettro della recessione che, per quanto “pilotata” dalle stesse Banche Centrali, aleggia su di noi. Il rischio che possa “scappare di mano” è un’ipotesi che gli operatori non scartano. D’altronde il precedente è ancora troppo fresco: tutti ricordano che fino all’inverno scorso Powell per primo ha continuato a ripetere che l’inflazione era un fenomeno passeggero, ipotesi a cui si era “accodata” la BCE a guida Lagarde, ritardando colpevolmente interventi per spegnerla sul nascere e quindi favorendone una crescita quasi “incontrollata”. Il ragionamento, quindi, di molti operatori è che l’errore possa ripetersi, anche se in direzione opposta, procrastinando, cioè, oltre modo il rigore finanziario, le cui conseguenze sulla crescita potrebbe essere molto gravi, con chiusure aziendali e disoccupazione in aumento ovunque, facendo precipitare il mondo in una crisi che ci riporterebbe agli anni 70.
Ormai è chiaro che se l’anno che sta per finire tutto sommato si chiuderà comunque positivamente (l’Italia, in questo senso, sarà tra i Paesi con la maggior crescita), l’anno che verrà non sarà certamente semplice. A livello globale la crescita dovrebbe attestarsi intorno al 2,3% (da noi si dovrebbe fermare intorno allo 0,4/0,6%). Determinanti sarà riportare l’inflazione nei parametri ritenuti congrui e, soprattutto per l’Europa, arrivare ad un controllo della dinamica dei prezzi dell’energia. In questo senso, qualche apertura sembrerebbe esserci, dopo che la Germania, il cui Cancelliere Scholz probabilmente si è reso conto di quanto il Piano straordinario di € 200 MD annunciato la settimana scorsa abbia “destabilizzato” l’Europa, evidenziando le tensioni tra gli Stati membri, ha dato segnali di apertura sul “price cap”, o, per lo meno, sull’individuazione di strumenti che possano mettere al riparo da aumenti (o volatilità) dei prezzi vertiginosi. Peraltro, prima di arrivare ad una decisione finale, potrebbe emergere la volontà di capire quale sarà il programma del Governo italiano che sta per nascere, verificando se veramente si tratterà di un esecutivo di “alto profilo”, come da giorni si va ripetendo (anche se la casella forse più importante al momento continua a rimanere vuota…) e se, dall’altra parte, quella che dovrebbe essere la candidata Premier continuerà a tenere un “basso profilo” e toni moderati. Intanto è bastata la presunta notizia di emissione, da parte dell’Europa, di nuovo debito comune (Eurobond) per finanziare politiche anticrisi (una sorta di nuovo Recovery Fubnd) per far scendere di colpo lo spread di una ventina di punti. Ma un nuovo debito, per quanto comune, mal si concilierebbe con le politiche restrittive (non solo aumento dei tassi, ma anche stop agli acquisti di titoli governativi da parte della BCE, anzi inizio della misura opposta, cioè la loro vendita….).
I mercati asiatici si apprestano a chiudere una giornata dominata dall’incertezza. Tutti gli indici evidenziano un andamento negativo (Nikkei – 2,6%, Kospi Seul – 2%, Hong Kong – 1,7%), con l’eccezione di Shanghai, appena sopra la parità.
Futures al momento negativi ovunque, seppur con qualche segnale di timido recupero.
Tiene il petrolio, con il WTI che a New York scambia intorno ai $ 91.
Recupera invece il gas naturale Usa, a $ 6,549 (+ 1,60%).
Stabile l’oro, a $ 1.676.
Spread a 238 bp, dopo che ieri aveva superato i 250 bp. Il rendimento dei BTP, peraltro, rimane “in quota” a causa del rialzo del Bund tedesco, al 2,17%.
Tresaury Usa al 4%, ai massimi dal 2010. Biennale al 4,34%.
Continua il recupero del $, con €/$ a 0,9698.
Bitcoin che “a fatica” tiene quota $ 19.000: questa mattina è a 19.109, – 1,5%.
Ps: è stato assegnato anche il Nobel per l’Economia. Tre i vincitori: Douglas Diamond, Philip Dybvig, sconosciuti ai “non addetti ai lavori”, e Ben Bernanke. Quest’ultimo sì, invece, noto a molti. E’ stato, infatti, a capo della FED americana tra il 2006 e il 2014, ed è noto per aver lanciato il QE, il riacquisto di titoli, soprattutto governativi, da parte delle Banche Centrali. Ma le motivazioni del Premio non vanno ricercate per aver inventato una nuova manovra monetaria (nel suo caso), ma, insieme agli altri 2 economisti, per i loro studi sul Credito e sul ruolo dei sistemi bancari durante le crisi finanziarie.